Nella stanza di Elisa, in coma da 12 anni: gli occhi chiusi e le carezze di Adriana. Il papà: lei non vive

28 Lug 2017

Nella camera dove vive la donna che oggi ha 46 anni: il 22 febbraio 2006 ha avuto un incidente mentre tornava a casa con il fidanzato da Padova. Lui si salvò e poi si tolse la vita per il rimorso. Da allora lei vive immobilizzata a letto all’Antica Scuola Santa Maria dei Battuti di Mestre

Macchine, cannule, la sacca con l’intruglio che la alimenta, il baxter che la idrata. Eccola Elisa. Ha gli occhi chiusi e la bocca aperta e chissà dov’è. Il suo mondo mentale è sconosciuto, quello fisico si risolve in questa stanza senza tempo perché qui è sempre tutto uguale. Siamo al terzo piano dell’Antica Scuola Santa Maria dei Battuti di Mestre, una casa di riposo che ha una sezione speciale e riservatissima, dove gli estranei non possono entrare. La chiamano Svp, stati vegetativi permanenti. Elisa lo è. Non parla, non mangia, non vede, non si muove. La sua è una vita sospesa da dodici anni, da quando un incidente stradale l’ha fatta entrare in questo tunnel senza uscita.

«Questa non è vita e non è neppure sospesa perché è una situazione permanente, irreversibile, non so nemmeno io cos’è… — dice il padre di Elisa, Giuseppe, che cerca una parola che non esiste per definire la condizione di sua figlia —. Elisa non ha più niente di com’era. Non la riconosco, non la chiamerei neppure persona. Lei era bella, arguta, piacevole. Ora non ha nemmeno la sensibilità di un vegetale che almeno gode di un raggio di sole, di una goccia d’acqua. Lei non potrà mai godere di niente, potrà solo soffrire». Brividi. Il signor Giuseppe che tutti chiamano Pino, si agita al telefono, mentre Elisa, 46 anni, giace immobile davanti a noi. Accanto a lei c’è Adriana, la badante che la guarda, la accarezza, la cura. «Non si è mai svegliata, le manca una parte di cervello, vedi qui…», indica.

Sul letto a fianco, corpo inerte e occhi sbarrati, la compagna di stanza. Si chiama Marina e ha 68 anni, in coma vigile permanente da dieci. Ad accudirla c’è il figlio Eros che viene ogni giorno, anche oggi che ha iniziato le ferie. «Non è un obbligo, sia chiaro, io voglio esserci perché succede spesso che le viene il catarro e io so come aspirare», dice Eros, una quarantina d’anni e gli occhi di chi deve aver visto qualcosa di brutto in questi anni.

Improvvisamente Elisa ha un sussulto e si sposta dalla parte destra del letto. Adriana balza in piedi e la blocca mentre tossisce catarrosa. La badante infila i guanti blu, prende la macchina aspiratrice, la aggancia a una sonda che esce dal collo di Elisa e aspira. «Bisogna fare così, altrimenti peggiora». Arriva anche Eros che ha l’abilità di un infermiere e cambia la sacca alimentare con quella dell’acqua. Toglie, apre, armeggia e aspetta che scenda una goccia, il segnale che il liquido la sta idratando. «Sono dieci anni che lo faccio con mia mamma, se capita ad altri intervengo».

Nella stanza di Elisa va così, si aiutano a vicenda. Anche perché oggi Pino non è potuto passare a trovare la figlia. È in viaggio verso Belluno dove incontrerà un dottore per chiedergli un consiglio sul da farsi. «Da quando è morto il nonno, un paio di mesi fa, io sono rimasto da solo a gestirla — spiega sempre al telefono —. Se mi succede qualcosa che ne sarà di lei? Mi angoscia il solo pensiero di ammalarmi, di avere un incidente che mi blocca in casa per qualche settimane». Non osa neppure pensare all’eventualità più terribile: quella di sopravviverle. «Perché Elisa ha un fisico resistente, è sempre stata così. Comunque non vorrei farne una battaglia personale, come lei ci sono molti altri pazienti in stato vegetativo». Due sono qui, dieci nella sola provincia di Venezia. Sono assistiti, curati, ma esiste il problema del fine vita.

Il signor Pino ha deciso di affidarsi all’associazione Luca Coscioni, dopo aver interpellato anni fa lo studio legale Campeis, che assisteva la famiglia di Eluana Englaro. «Il quadro normativo è chiaro, coerente e consolidato — spiega l’avvocato Giuseppe Campeis —. Il signor Pino, come amministratore di sostegno di Elisa, può chiedere al giudice tutelare di rinunciare al trattamento medico in corso. Ottenuta l’autorizzazione potrà rivolgersi al sistema sanitario nazionale per avere le cure palliative che accompagnino sua figlia a una morte senza sofferenza».

Perché, dunque, queste famiglie non chiedono l’intervento del giudice tutelare? «Non vorrei essere io a farlo — sospira Eros, mentre la madre ha un attacco di tosse —. Deve essere lo Stato a decidere. Quando era in rianimazione potevano lasciarla andare invece di stabilizzarla…». Eros la vede così. Giuseppe, invece, non esclude di chiedere la dolce morte di Elisa ma gli sembra un percorso a ostacoli. Lui è persona poco avvezza alle questioni di legge e qui c’è di mezzo il parere di un giudice tutelare. «Chiederò all’associazione Luca Coscioni cosa ne pensa, non escludo di agire per vie legali».

Dal canto suo, anche un grande esperto di stati vegetativi come il dottor Giuseppe Olivari che fino all’anno scorso ha seguito Elisa e casi analoghi, si dice perplesso: «La domanda è sempre quella: il trattamento medico in corso è o non è accanimento terapeutico? Se lo è, esiste il diritto a interrompere. Qui i comitati etici devono lavorarci perché mi sembra che non abbiano partorito alcunché». Nel frattempo, il cielo sopra l’Antica Scuola dei Battuti si è fatto azzurro. Splende un bel sole di mezza estate. Ma Elisa non lo sa.

Da Corriere.it

Sostieni la salute della donna!