Cancro al seno, sistema immunitario ha un ruolo chiave nella prognosi

6 Nov 2015

Identificare le pazienti che possono trarre maggiori benefici dai trattamenti disponibili e definire i casi ad alto e basso rischio di recidiva offrendo la possibilità di usare nuove immunoterapie. A tutto ciò contribuisce il sistema immunitario nel tumore al seno, secondo due studi pubblicati su Annals of Oncology e Clinical Cancer Research svolti al Dipartimento di Oncologia Medica dell’Ircss Ospedale San Raffaele in collaborazione con l’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano e altri ricercatori stranieri e italiani. Del carcinoma mammario esistono tre sottotipi principali: la variante luminale che esprime il recettore per gli estrogeni, ma non per la proteina Her2; quella Her2 positiva e la triplo-negativa, in cui non viene espressa alcuna proteina. Lo studio su Annals of Oncology esamina pazienti con sottotipo Her2-positivo trattate con anticorpi monoclonali anti-Her2 oltre alla consueta chemioterapia. La risposta al trattamento era eterogenea: in alcuni casi la malattia regrediva, mentre in altri non dava benefici. E secondo gli autori ciò dipende da una proteina, Pdl1, coinvolta nell’inibizione del sistema immunitario, che agirebbe da freno alla terapia. Dal secondo studio emerge invece il ruolo chiave del sistema immunitario nel definite il rischio di recidiva e la risposta alla chemioterapia nel sottotipo triplo-negativo, in genere trattato con la sola chemioterapia. Studiando oltre 3.000 pazienti, gli autori hanno definito un marker immune composto da sei geni associati alla presenza di linfociti T. E dopo avere suddiviso le partecipanti in tre gruppi con alta, intermedia e bassa presenza di cellule immunitarie, i ricercatori hanno scoperto che nelle pazienti con alto numero di cellule T, ossia con elevata espressione del marker, la prognosi era buona anche senza trattamento e ancora più favorevole con la chemioterapia. Viceversa, chi aveva un bassa espressione del marker aveva anche un elevato rischio di recidive nonostante chemioterapia, con più del 40% di possibilità di sviluppare metastasi. «Questi risultati ci suggeriscono di estendere al tumore mammario l’impiego di farmaci immunoterapici mirati a sbloccare l’effetto inibitorio di proteine come Pdl1» osserva Luca Gianni, direttore del dipartimento di Oncologia medica del San Raffaele. E Maria Grazia Daidone, direttore del dipartimento di Oncologia sperimentale all’Istituto dei Tumori, conclude: «Sulla base di questi dati è stato avviato uno studio internazionale da noi coordinato per valutare l’utilizzo di queste molecole immunoterapiche in associazione alla chemioterapia nel carcinoma triplo-negativo localmente avanzato».

Ann Oncol. 2015. doi: 10.1093/annonc/mdv395
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/26387142

Clin Cancer Res. 2015. doi: 10.1158/1078-0432.CCR-15-0757 http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/26423797

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